Se devo andare all’inferno,
ci andrò suonando il mio piano.
Jerry Lee Lewis
Ho una pessima memoria, dei timori irragionevoli, una forte tendenza alla distrazione. Commetto errori, fraintendo informazioni, la mia cultura e le mie capacità intellettive sono limitate. Sono distante anni luce da qualsiasi concetto di perfezione umana, lo so, non ho mai creduto il contrario. Forse sono soltanto un ammasso di difetti tenuti insieme con lo sputo, un individuo qualsiasi che tira a campare come può, tra pochi piaceri e innumerevoli difficoltà, ma nemmeno Elena è impeccabile.
«Datti una mossa, rincoglionito» strilla una signora che mi sorpassa da destra, mostrandomi il dito medio dall’alto del suo SUV.
È più truccata e incazzata di un clown malvagio. Sto cercando parcheggio con il mio maggiolone, non so se abbia suonato il clacson per superarmi, ma sono sicuro che meriti una risposta adeguata. Non faccio però in tempo ad abbassare il finestrino che ha già svoltato in una traversa. E la risata di Jerry è l’unico suono che esce dall’abitacolo.
Lo guardo nello specchietto retrovisore: è sul seggiolino, agita il suo ragno di peluche in segno di saluto, verso quel personaggio da film dell’orrore che ormai non si vede più.
«Ti diverti?»
«Sì» esclama con entusiasmo.
«Menomale, almeno uno di noi è di buonumore».
Scendo dall’auto e sgranchisco le ginocchia. Se avessi fatto un altro giro attorno al giardino pubblico avrei dimenticato perché mi trovo da queste parti. Sono qui per Jerry, per farlo svagare un po’, mentre Elena risolve i suoi imprevisti di lavoro.
«Non distrarti mai, basta un attimo» ha detto prima che uscissimo di casa.
Ha tre anni, cosa può fare in un attimo? Scaccolarsi? Mangiare un bruco? Incendiare tutto il giardino? Posso capire le ansie di una madre, ma questa recente mancanza di fiducia mi offende. Con me non gli è mai capitato niente di brutto. Non riesco neppure a immaginare come potrebbe farsi male qua, forse lanciandosi dalla cima di un albero, ma ancora non è abbastanza bravo ad arrampicarsi. Jerry è indistruttibile. I bambini cadono e piangono, per un graffio, un bernoccolo o lo spavento, lui invece si rialza come se nulla fosse, illeso. E non ha paura di niente, anzi, più qualcosa è inquietante più gli piace, come quel peluche che desiderava tanto.
Elena ha sempre detto di non sapere chi è il padre di Jerry; ha avuto vari rapporti occasionali in quel periodo, non c’era mai niente di serio, neppure con me. Considerando certe caratteristiche del bambino, tra cui anche la generosità e una spiccata empatia, non escluderei l’ipotesi che sia figlio di un superuomo.
Gli apro la portiera, lo libero dal seggiolino e prendo la sacca che Elena ha preparato per lui. Jerry scalpita, come sempre è allegro e pieno di energie. Non mi pare che il passeggino sia necessario, se si stanca lo riporterò alla macchina in braccio; finché la mia schiena e la relazione con sua madre reggono, lo farò con gioia.
Jerry trotterella davanti a me, stringendo il suo amico di stoffa a otto zampe. Io trasporto la sacca e le mie angosce. Nella prima ci sono: bottiglietta d’acqua, succo di frutta, biscotti al cioccolato, una banana, fazzoletti, salviette umidificate e maglietta di ricambio. Le altre sono stracolme delle critiche di Elena al mio modo di essere.
Da alcune settimane si lamenta della mia sbadataggine, delle mie scarse ambizioni e soprattutto della presunta noncuranza che avrei per le sue cose. Dice che per me i suoi impegni non sembrano mai importanti, che non dimostro interesse per le sue passioni, che non presto attenzione a ciò che mi racconta.
«Pensi ad altro quando parlo. Te ne freghi di quello che dico» mi ha detto due giorni fa.
Ok, quella volta non la stavo ascoltando, però queste parole le ricordo. Cosa posso farci se spesso sono soprappensiero? Sono fatto così, lo sa, ci conosciamo da tanti anni. Siamo stati amici, poi amanti e quando è nato Jerry ci siamo innamorati. Le piacevo, diceva che la mia testa è bella perché sa volare via. Ora invece sembra volere che io cambi, ma anche se volessi accontentarla, non saprei come. Oppure non mi sopporta più.
Aiuto Jerry a salire sullo scivolo, lo prendo quando arriva giù e lo scorto di nuovo sulla scaletta. Ancora e ancora, sempre con il ragno, parlando delle nuvole che sono barche nel cielo, del vento che gioca con le foglie e di tanto altro. Potrebbe farlo all’infinito, come se ogni discesa fosse la prima.
Non è vero che non mi curo delle sue cose. Ok, ho graffiato il disco di PJ Harvey che mi ha prestato; non l’ho mica fatto apposta, quell’album è un capolavoro. E ho dimenticato di annaffiarle le piante quando è andata da quei parenti al sud; mi è dispiaciuto averne fatte morire la metà, erano splendide. E sono arrivato in ritardo alla conferenza sulla musicoterapia che ha organizzato; avrei voluto esserci, si era sbattuta parecchio. Ma sto badando a Jerry, la cosa più preziosa della sua vita, che adoro e per cui sarei pronto a qualsiasi sacrificio, senza esitare.
«Ho fame» dice, dando dei colpetti alla pancia.
Ci sediamo su una panchina. Sceglie la banana. Mi stanno antipatici quei bambini che fanno i capricci per mangiare, e quelli che si strafogano mi fanno ribrezzo. Jerry invece si nutre con innata saggezza; preferisce i cibi sani e li gusta senza mai eccedere. Poi salta giù, incuriosito da un’aiuola fiorita e dagli insetti che gli ronzano intorno.
«Ehi Killer, stai attento alle api, quelle pungono».
Mi piace chiamarlo così, e non solo perché è bello da morire: ha la carnagione color caramello, occhi smeraldini, il ciuffo ribelle e un sorriso assassino; da grande farà strage di ragazze, o ragazzi, o di entrambi. Ma il vero motivo è un altro.
«Jerry Lee Lewis è ancora vivo?» mi ha domandato sconvolta.
«Ero a Miami, lucido e concentrato. Te lo assicuro, era lui sul palco» le ho risposto. O qualcosa di simile.
Eravamo in un locale tranquillo. Bevevamo dei cocktail e ci carezzavamo sotto al tavolo. Non ci vedevamo da due mesi.
«Is The Killer fucking alive, still?»
«Yeah, and he’s fucking great… Great balls of fire».
«Really? I can’t bilieve it».
«We were so many and everyone can tell you».
«Con la vita che ha avuto suona ancora il piano e canta… incredibile, forse è immortale».
«Droga, alcol, galera, lutti, declini, è risaputo che facciano bene alla salute; senza contare tutti quei matrimoni, a volte con delle ragazzine, persino di famiglia. The Killer will never die».
«Amazing, rock’n’roll isn’t dead!»
Poi abbiamo riso e brindato ai pionieri musicali. O qualcosa del genere.
I differenti fusi orari non ci hanno permesso di sentirci granché mentre ero negli States. Ho avuto nostalgia di lei ogni giorno, a macchia d’olio; uno struggimento che si è diffuso su tutto il corpo, ricoprendolo interamente, e mi ha fatto percepire la sua assenza in modo fisico, ovunque fossi, qualsiasi cosa facessi.
«Insomma un’esperienza eccezionale, eh?»
«E questo nel primo giorno, ho tanto altro da raccontarti. Ma a te cos’è capitato, qual è il grande avvenimento di cui volevi parlarmi?»
«Be’, in effetti ancora non è grande, anzi, al momento è piccolo come un fagiolo, ma crescerà e sarà davvero un cambiamento enorme».
«Sembra una bella novità. Di che si tratta, di un aumento di stipendio?»
«Sto bevendo un analcolico. Non ti è parso strano? Sono incinta, rimbambito».
Ho pensato all’ultima volta che avevamo scopato, prima di partire, e se ero stato attento. Quanto tempo era passato? Quando aveva scoperto la gravidanza? Non eravamo una coppia, ognuno poteva andare con chi voleva, anche se di questa libertà ne giovava solo lei; io non sono una gran bellezza, è già tanto che ne abbia trovata una che me la dà. Poi credo di avere ragionato sul termine “gravidanza”. Che parola bizzarra, è composta da grave, cioè pesante, e danza, ovvero ballo: il ballo pesante. Così non sembra un lieto evento, ma una coreografia di ballerini obesi. Chissà qual è l’etimologia.
«Non volare via, resta qua. Non è tuo, tu non c’entri niente, neanche eri qui. È mio… mio e di nessun altro. E lo tengo, posso crescerlo da sola. Del proprietario del seme, chiunque sia, me ne fotto. Vado per i quaranta, potrei non avere un’altra occasione. Non che ci pensassi, ma ora c’è, è qui, dentro di me, e ne sono felice. Mi hai sentita? Sono felice».
Jerry tenta di fare amicizia con un bimbo piccolo come lui, che però sembra troppo timido e si nasconde dietro le gambe di sua madre.
«Non possiamo fermarci, tesorino, andiamo di fretta, giocherete la prossima volta» gli dice quella trafelata, prima di allontanarsi sollevando il figlio che fatica a tenere il suo passo.
Non ci rimane male, li saluta sventolando il ragno. Poi nota dei passeri zampettare sul prato, li avvicina piano e si accoccola a osservarli. Gli voglio bene, non è un problema che non sia figlio mio, né che non mi chiami papà. Lei gli ha dato il nome del mio musicista preferito: è il nostro piccolo legame.
Ho chiesto io di stare con Jerry oggi pomeriggio, ne avevo voglia, e volevo dare una mano a Elena in un giorno incasinato. Eppure è scontenta di me. Ok, sono parecchio sbadato, e vorrei non esserlo, ma il suo disappunto mi sta solo stressando. Non capisce che ho più rispetto per i suoi affari che per i miei, che mi intriga tutto ciò che la riguarda, che penso a lei più che a me stesso. O forse l’ha scordato.
Forse è così che funziona nelle relazioni amorose. All’inizio il sesso è poesia, la percezione del tempo cambia, si provano emozioni che danno la dipendenza, si diventa il sostegno l’uno dell’altro, insieme si può affrontare qualsiasi avversità, ogni progetto è realizzabile, ogni complimento addolcisce, gli errori e le imperfezioni strappano risate. E non ci si sente più soli. Poi quel sentimento diventa una rogna, l’atto sessuale un egoistico bisogno di godere, il tempo condiviso un cappio al collo, quelle suggestioni emotive sbiadiscono, le incomprensioni sfociano nell’insofferenza, le inadeguatezze nell’astio, si è assuefatti ai pregi dell’altro, intolleranti alle sue pecche, germogliano diffidenza e menzogna. E ci si ritrova di nuovo soli.
Non voglio che finisca. Non voglio perdere lei e Jerry.
Andava talmente bene fino a poco tempo fa, c’era intesa e passione, non può essere scoppiato tutto come un palloncino. Oppure è successo qualcosa di cui non mi sono accorto, o che non ho capito. Quando ha iniziato a lagnarsi, in che circostanza? Forse la sera che abbiamo ordinato cinese… o indiano? O dopo quel film inutile di… boh. Non lo so.
E se dietro questi rimproveri ci fosse altro, qualcosa che non può dirmi in modo diretto? È una donna complessa, non priva di insicurezze. Mi ha fatto intuire che desiderava un rapporto più profondo ed esclusivo con una scenata di gelosia. Forse anche stavolta vuole farmi capire qualcosa, magari una nuova aspirazione di crescita. Potrebbe essere questo il suo intento. Forse non vuole demolirci, ma farci evolvere.
Cosa manca alla nostra relazione? Coordiniamo i nostri impegni, programmiamo degli svaghi, nell’intimità siamo scintillanti e ognuno ha preservato il proprio spazio. E se fosse il distacco a causarle insoddisfazione? Forse ha bisogno di ridurre le distanze fra noi. La convivenza, potrebbe volere questo. Sarebbe un passo avanti naturale, come per tutte le coppie.
Non ho mai pensato di convivere; magari a causarle malumore è l’imbarazzo di parlarne. Dovrei rinunciare alle mie abitudini, a certe libertà imbarazzanti, a porzioni di solitudine che mi servono. Ogni sorta di mistero in noi svanirebbe, e credo che in una coppia i segreti siano essenziali, per mantenere la propria individualità. Decidere di avere una vita in comune significa abbandonare un equilibrio collaudato per ricrearne uno nuovo, che potrebbe fallire.
Se vivessimo insieme però ci sarebbero dei vantaggi, oltre quelli economici e logistici. Vederla a ogni risveglio, augurarsi buona giornata con un bacio, condividere più tempo, addormentarsi sempre vicini. Non sarebbe asfissiante, ognuno ha il proprio lavoro, e c’è Jerry; potrei diventare una presenza più significativa per lui. Abitare con Elena significherebbe fare parte di qualcosa di importante, dare un ruolo specifico alla mia esistenza, diventare una famiglia. Forse la nostra storia non finirebbe. Forse staremmo bene.
Mi fa una paura fottuta, questa è la verità. Dovrei farmi contagiare dal coraggio di Jerry, forse capirei che non c’è niente da temere, tranne la paura stessa. Ma dov’è? Era sul prato, guardava gli uccellini. Quanto tempo è passato da quel momento? Da quanto non lo vedo più?
Scatto in piedi e ruoto su me stesso. Alberi, cespugli, aiuole, prati, uccelli, scivolo, non vedo altro, Jerry non c’è. Salgo sulla panchina per avere una visuale migliore. Quanto tempo sono rimasto seduto qui? Si è avvicinato a me? Ha provato a dirmi qualcosa? Merda, non lo so. Salto giù e lo cerco dappertutto. L’ansia mi esplode dentro come una granata. Afferro la sacca e corro verso la macchina, forse è stanco e sta tornando là.
Incrocio un tizio che passeggia con il cane.
«Ha visto un bambino piccolo così, con i capelli scuri, un maglioncino azzurro e un peluche?»
«No. Ma è solo?»
«Sì, si chiama Jerry, se lo incontra deve fermarlo e avvertirmi».
Riparto di corsa, ispezionando ogni possibile nascondiglio. Arrivo alla macchina, ci butto dentro la sacca, ci giro attorno, controllo sotto. Niente. Sta per scoppiarmi il cuore. C’è un chiosco di panini sul marciapiede. Lo raggiungo e si ripete lo stesso scambio di battute.
Torno al centro del giardino, domandando ai pochi passanti se lo hanno visto. Nessuno sa niente. Vado alla fontana, siamo già stati qua, magari ricorda come arrivarci.
Mi abbatto sulla grossa vasca d’acqua putrida con il terrore di vederlo affogato. Non ci sta galleggiando dentro a faccia sotto, ma non è neanche nei paraggi. Corro dall’altra parte del giardino, mi lancio in mezzo alla strada, tra le macchine che per poco non mi travolgono. Cazzo, non riesco a trovarlo.
Porta il ventotto di piede ed è alto meno di un metro, dove può essere arrivato? Attraverso di nuovo il giardino gridando il suo nome. Sono nel panico. Dalle tasche mi cade di tutto. Arrivo sul terzo lato del giardino, con una fitta tremenda alla milza. C’è stato un incidente vicino al semaforo. Mi trascino fino allo scontro e mi faccio largo tra gli automobilisti che litigano. Jerry non è qui, non è stato investito. Ritorno nel giardino di corsa. Fanculo la milza.
Procedo verso l’ultimo lato del giardino, continuando a interrogare chiunque. Mi imbatto in un ragazzino che digita sul cellulare, lo avvicino per domandargli di Jerry, ma alle sue spalle noto una macchia scura sull’erba. Lo scanso e vado verso quella cosa, ignorando gli insulti. È il ragno. Lo raccolgo e torno dal ragazzino.
«Hai visto il bambino che ha perso questo peluche?»
«Vaffanculo. Ma di cosa ti sei fatto?»
«Lo hai visto o no?» gli urlo in faccia, scuotendolo per le braccia.
«Sono arrivato da poco, quello schifo era già là».
Mollo il ragazzino e riprendo a correre, sperando di avvistare Jerry. E lo chiamo, urlando sempre più forte. Si accendono i lampioni stradali. Da quanto tempo lo sto cercando? Da quanto tempo l’ho perso?
Mi piazzo al centro della strada e guardo in tutte le direzioni. Non lo vedo, non è neanche qui, e ogni rumore mi rimbomba nella testa, il respiro s’ingolfa, tutto si annebbia.
«Jerry, dove sei finito?» grido a squarciagola. «Jeeeeeeeerryyyyyyyy».
Marco Corvaia vive a Palermo. È l’autore di Pino se lo aspettava (Navarra Editore) e Post somnium (Edizioni Ensemble). Suoi scritti sono apparsi su Pastrengo, Poesia del Nostro Tempo, L’Ircocervo, Neutopia, Digressioni, Altri Animali, Malgrado le mosche, Blam, Risme, Micorrize e altri ancora. Si occupa anche di fumetto, videoarte e fotografia.