La vera me

La vera me mi sta addosso da quando ho ricordi. È quella che mi guarda dallo specchio ogni mattina quando mi lavo il viso, nel riflesso del finestrino del tram, nelle vetrine dei negozi. Ha occhi stanchi e silenziosi, spenti nella loro miopia, le labbra serrate in una costante smorfia di triste rimprovero. La vera me si accosta al mio orecchio e sussurra quanto io sia stupida dopo aver parlato in un certo modo, goffa nell’aver evitato quella pozzanghera, brutta con la nuova gonna color senape.

Mi rimanda l’immagine che hanno di me gli altri e me lo viene a raccontare con parole arrugginite spalmate di miele appiccicoso, che mi conficca nel fianco a volte appena sotto la pelle, altre volte fino nelle viscere.

Ogni volta che soffia le sue sillabe tra i miei capelli, ogni barlume di entusiasmo si scioglie nell’incertezza che sia troppo o troppo poco, che io non sia abbastanza. Mi spinge le spalle verso il basso con una forza appena percettibile ma costante, finché non mi inginocchio e guardo quanto in effetti sia troppo distante o grande ciò che mi sembrava lì a portata di mano. Meno male. Fortunatamente la vera me riesce a riportarmi alla realtà, alle mie reali possibilità. Ogni giorno della mia vita.

La prima volta che l’ho vista è stata nel grande specchio ovale del corridoio, quello che mi faceva una gran paura perché mi sembrava di vederci lampi e strani movimenti di biscia. Era un giorno speciale, finalmente era arrivato Carnevale e avrei potuto essere una principessa vera. Certo non come F.: sua mamma ogni anno faceva confezionare da una sarta un nuovo costume, a seconda della moda del momento. L’anno precedente a scuola era arrivata con un abito da Cenerentola in seta, non in poliestere come tutti gli altri bambini: sfiorando quasi per caso l’ampia sottana mi sono resa conto di quanto fosse morbida e liscia la ricchezza. Ogni Carnevale la mia di mamma, con le mani ruvide di candeggina, modificava il costume dell’anno precedente, almeno finché la taglia lo permetteva. Da orsacchiotto a gatto fino a fare di me una bambina delle caverne. A volte qualche inevitabile caduta di stile. Taglia, cuci, aggiungi, togli. L’abito da improbabile reginetta dei prati, intessuto di fiori di plastica e farfalle posticce, si sarebbe trasformato in quello di una principessa delle nevi, pieno di perle finte e lustrini di varie dimensioni, che la merceria all’angolo stava svendendo per rinnovo locali. Mentre le grandi margherite cadevano a terra, pensavo a quando avrei fatto toccare con magnanimità la mantellina di tulle intessuta di brillantini sintetici, sentivo correre nella schiena il lento piacere della rivincita che mi sentivo premere nella pancia. Quella mattina dovevo solo infilare le scarpe, ma la vanità di volermi vedere con quel costume luccicante mi fece inciampare nei suoi occhi oltre lo specchio. Eccola la vera me. Quella che mi mostrava com’ero da fuori, la voce che già mi sussurrava che quella non era roba per me, qualunque cosa fosse. Oltre il mio riflesso non c’era nulla. Non l’attaccapanni alle mie spalle, non il grande quadro con una marina placida e serena. Solo buio. Il mio svenimento pose fine prima ancora di cominciare al mio piccolo trionfo personale, così a lungo pregustato. Io li ho visti i suoi occhi, ho percepito il suo biasimo, ho sentito mormorare parole di disappunto. Aveva ragione in fondo. Non ero abbastanza. All’inizio ho pensato che fosse solo uno spettro, una specie di incubo al di là dello specchio che si sarebbe dissolto in un battito di ciglia. Forse era il riflesso della mia cattiveria. Sì, ecco, era la mia parte cattiva imprigionata oltre la superficie lucida: non spingeva per uscire, non si dibatteva, non cercava di rompere il vetro. Semplicemente stava lì in attesa e mi guardava. Sapeva che era solo questione di tempo. Ma io non ero una bambina cattiva, no, volevo essere buona.

Ma la vera me si era insinuata ormai tra i miei pensieri e mi mostrava com’ero da fuori.

Come faccio a sapere che è lei quella vera? Perché le copie hanno sempre qualcosa di sbagliato e imperfetto. Inciampano in quella lieve stortura, impercettibile ai più, ma ben chiara e visibile a chi distingue il vero dal falso. Lei non è mai stata in errore, mi ha fatto sempre notare ogni sbavatura, tutto il ridicolo dei capelli troppo corti, delle caviglie un po’grosse per quelle scarpe, della mia espressione vacua a una domanda qualunque.

Ora mi sento stanca. È faticoso fallire ogni giorno. Soprattutto quando tu stessa ti rimproveri dallo specchio mentre ti lavi il viso, dal riflesso del finestrino del tram quando vai al lavoro, dalle vetrine dei negozi correndo a casa la sera. Voglio fare a cambio con la vera me, che per qualche strana alchimia se ne sta altrove, in quella strana dimensione al di là di tutto, mentre io sono qui ad arrancare negli errori e nell’imperfezione.

Lo specchio ovale, quello in cui l’ho vista per la prima volta, è andato in frantumi tanti anni fa: ho appoggiato la mano sulla superficie fredda sperando in una magia, in un improvviso capovolgimento della realtà. Ma non era abbastanza, come sempre d’altronde. Premere, spingere, imprimere forza dalla spalla alla mano passando per il gomito. Finché con un pugno dritto e secco ho spaccato la vera me in sedici grandi schegge, che sono cadute a terra insieme a una pioggia di piccole stelle. Una ragazza davvero cattiva, con le nocche coperte di sangue, che aveva appena spaccato la faccia alla prima della classe.

Me l’ha fatta pagare, c’era da immaginarselo, con sussurri spietati proprio mentre davo il primo bacio. Si è vendicata e ha fatto bene: non mi meritavo nulla di quello che mi stava accadendo, mentre la vera me se ne stava ad aspettarmi, acquattata nel riflesso dell’armadio rosso lucido della camera da letto.

Ora so di aver avuto l’idea giusta per accontentarla e farle prendere il mio posto, finalmente. La vera me vivrà una vita giusta, impeccabile, di successo e non sarà più confusa con la sua brutta copia, impacciata e goffa. Avrà la sua rivincita, arriverà finalmente il suo turno e nessuno le passerà avanti mentre se ne sta in fila ad aspettare. Io la guarderò da qui, da sotto la superficie: si specchierà in me e i nostri occhi si incontreranno finalmente dalla parte giusta.

Il lago questa mattina è piatto, solo qualche increspatura di vento, lieve. È il primo gennaio e voglio iniziare bene questo nuovo anno, questa nuova vita. I sassi nelle tasche sformano il cappotto che mi sono comprata apposta: per la prima volta la vera me non mi ha biasimato, si è limitata a osservarmi. È un buon segno. Ho lasciato le scarpe sulla battigia, l’acqua è gelida e i piedi scivolano sulle pietre coperte da un tappeto di viscide diatomee. Il freddo mi serra il ventre, poi le spalle e finalmente non tocco più. Ora finalmente posso lasciarmi scivolare verso il fondo, senza nessun rimprovero o biasimo. Sopra di me il sole si allarga su questa lente lattiginosa che deforma le cime dei monti qui intorno.  Sono al di là della superficie, oltre lo specchio.

La realtà sembra più lontana, non è così semplice vedere con chiarezza.

Tendo la mano per incontrare quella della vera me che forse sarà lì sul pelo dell’acqua, a riflettersi nell’abisso vischioso di questa mia nuova vita. Ma non avviene nessun contatto: è giusto così, meglio liberarsi della brutta copia. È un sussurro che mi sfiora le orecchie nel silenzio uterino del lago. La vera me mi accompagna verso il fondale melmoso appendendosi alle tasche pesanti di sassi. La superficie si allontana sempre di più e poche bolle ormai incrinano lo specchio lucente.

Se tocco il pelo dell’acqua con le dita, sembra che la mia immagine riflessa affondi dopo essersi dissolta in cento piccole onde. Prendo i sassi dalle tasche del cappotto e inizio a lanciarli per farla andare sempre più giù. Plop. I tonfi risuonano in perfetti cerchi rotondi.

I piedi sono ancora gelati nonostante li abbia frizionati con forza: ho sempre avuto questo brutto vizio di camminare scalza sulla battigia, qualunque temperatura ci sia, anche tra le rocce scivolose. Per poco non mi ammazzavo. Domani compirò gli anni: da quando non ci sei più ho iniziato a contare quelli che mi mancano. Sono a metà della mia vita? O forse anche per me manca poco? Domani o tra trent’anni? Ecco, credo non ne valga più la pena perdersi in sciocchezze, sentirsi inadeguata, sempre. Ti ricordi quando ti dicevo che a volte mi sembra di vedermi da fuori e tu mi prendevi in giro? Mi sentivo qualcosa dentro quando mi guardavo allo specchio, un senso di disagio, come se la mia immagine mi biasimasse, mi rimproverasse di non essere mai abbastanza. Mi sono rimpicciolita dentro a queste sensazioni fino a voler sparire, mi sono lasciata sfuggire tutte le occasioni che ho avuto per germogliare come un grande e sfacciato ibisco arancione, come quelli che avevi tu in giardino, ricordi?

Ma ora, quanto mi manca? Morirò domani o tra trent’anni? Non voglio più ascoltare quella voce, voglio che si perda nello sciabordio quieto delle acque di questo lago, dove mi portavi da bambina. A volte pensavo che il mio riflesso, il sussurro che mi accarezzava l’orecchio, fosse la vera me intrappolata al di là dello specchio, nel finestrino del tram o nelle vetrine dei negozi sulla strada di casa e che io fossi una sorta di brutta copia lasciata qui nel mondo a perdersi senza libretto di istruzioni. Ora che sono sola, che tu sei scomparsa da un momento all’altro, voglio guardarmi nello specchio e gustarmi tutti i fili grigi che si stanno intrecciando nei miei capelli, come rampicanti che invadono antiche rovine dando loro nuova vita, nuova bellezza. Riprendere spazio, invaderlo con il mio corpo, smettere di rincantucciarmi proprio nell’angolo, lungo i bordi, dove lo specchio rifrange la luce nelle sue sfaccettature squadrate. Voglio che la mia voce non si ammutolisca nei sussurri che mi arrivano dal profondo e che mi raccontano di quanto io sia goffa e sbagliata. E se sarà domani o tra trent’anni, voglio chiudere gli occhi con la mia immagine leggera, con tutti i suoi difetti coltivati a fatica nel corso della vita.

Lancio i sassi nell’acqua e io non ci sono più. Quando la superficie ritorna calma mi specchio di nuovo e questa nuova me ha deciso di vedere l’esistenza come qualcosa che compare e scompare, cambiando repentinamente le carte in tavola a suo gusto, senza regole. Tu eri più saggia di me e lo sapevi, mentre io non ti capivo quando mi ripetevi che proprio non ne valeva la pena e che avrei capito da grande che siamo noi a dare così tanto potere agli occhi di chi ci scruta e giudica. Ero così impegnata a guardarmi da me stessa, a controllarmi, ad ascoltare tutti quei pensieri, voci, sensazioni che mi dicevano tu non vai bene. Mai.

Domani o tra trent’anni, non importa molto ora: è oggi che sono viva, è oggi che posso sentire il profumo del lago. È oggi che mi sento finalmente la vera me.


Maria Teresa Boghetich vive e lavora a Milano. Archeologa mancata, ama conoscere e imparare cose che per la maggioranza delle persone non hanno alcuna utilità, come la lingua islandese e la fotografia stereoscopica. Ha iniziato a scrivere partecipando al progetto di scrittura collettiva L’Alveare, promosso da Paola Barbato, e da lì non si è più fermata.

Redazione

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