Le mie bambine

Un giorno, salendo le scale di casa, le vidi. Erano al terzo piano, davanti alla porta del Preside della scuola in cui insegnavo disegno. Le bambine stavano in piedi, sopra lo zerbino. Io feci finta di niente e passai oltre, sentendomi addosso il loro sguardo.

Presto diventò un’abitudine. Probabilmente mi spiavano dalla finestra; quando mi vedevano in strada uscivano di casa e mi aspettavano. Avevano dieci, forse undici anni. Un giorno provai a chiedere loro a che gioco giocassero e una delle due mi rispose: «Se mi fai vedere l’uccello te lo succhio fino a farti venire». E mentre lei parlava l’altra si tirava su la gonna mostrandomi le sue mutandine bianche con gli orsetti azzurri. Io alzai la voce dicendole che non erano discorsi da fare e me ne andai. Il giorno dopo erano ancora lì. Provai a fare finta che non esistessero, ad andare dritto per la mia strada, ma loro mi vennero dietro ridendo e mi si aggrapparono ai pantaloni. Dovetti piegarmi, dar loro uno strattone e mettermi a correre.

Non erano due estranee, già allora le conoscevo bene. Erano le mie bambine. Iniziai a disegnarle quando avevo più o meno la loro età. Due gemelle, vestite allo stesso modo, un abito lungo fino alle ginocchia, le scarpe di tela coi lacci. Mi vergognavo di loro. Avevo riempito un quaderno con quei disegni e lo tenevo nascosto. Le facevo ballare, arrampicarsi sugli alberi, saltare gli ostacoli, combattere contro i mostri. Poi, senza un motivo, mi stancai e cambiai soggetti. Insieme cambiai la voce e tante cose mi sono successe. Il liceo, l’accademia, il lavoro. Diventai maestro di disegno in quella stessa scuola elementare. Ogni tanto le bambine tornavano sopra ai miei fogli. Ma accadeva di rado. Fino a che non le rividi salendo le scale del palazzo. Erano le stesse bambine, ma tutto era cambiato in loro. Così ricominciai a disegnarle.

Facevo sui fogli le bozze e poi le riportavo su tela. Ne avevo riempito lo studio, ma ogni volta che terminavo un quadro lo appoggiavo sugli altri, in modo che a essere esposto fosse solo il retro bianco. Quando prendevo coraggio, giravo tutte le tele e mi sedevo nel centro della stanza a guardarle. Sulla scrivania, chiusi in una cartella, gli A4 con i nudi infantili. Immagini confuse, che si facevano nitide sulle tele. Le lasciavo prendere forma fuori di me. Ne provavo orrore ma mi sembravano anche la cosa più bella che avessi mai fatto.

Le bambine mi facevano agguati tutti i giorni. Così, una sera, scesi al terzo piano e suonai al citofono. Il Preside mi aprì. Gli raccontai che cosa era successo. Rimase serio, impassibile. Mi disse che era pericoloso quello che gli stavo dicendo, che dovevo stare attento. Che sicuramente avevo frainteso il comportamento delle sue figlie. O peggio. Riconosce la gravità delle sue affermazioni? Sa che potrei anche accusarla del reato peggiore che esista? A sentirlo presi a tremare. Non sapevo più che cosa dire. Tornai a casa con la coda tra le gambe. Se avessero scoperto i miei disegni, per me sarebbe stata la fine.

Le bambine continuarono a torturarmi e un giorno me le ritrovai in classe. Entrarono con il Preside che presentò agli studenti le loro nuove compagne. Si sedettero a due banchi liberi, l’una accanto all’altra. Ricordo che mi erano sembrate due bambine normali. A casa, non potevo fare a meno di disegnarle. In alcune tele c’era anche il Preside.

Ora che le bambine erano mie allieve quei quadri mi facevano ancora più male. Decisi che era venuto il momento di distruggere tutto quanto. Una mattina, all’intervallo, non avendo il turno di sorveglianza, ero rimasto nell’aula di arte a leggere un libro sul mio artista preferito, Henri Rousseau. Le due bambine erano entrate. Io dissi loro di tornare subito con i compagni, ma non mi ascoltarono. Si misero a gattoni sotto alla cattedra e provarono a togliermi i pantaloni. Io non riuscivo a ribellarmi perché le loro braccia erano fortissime e una delle due mi mordeva le mani con cui cercavo di allontanarle. Arrivò il Preside a interromperci. Indicando la porta disse alle bambine di uscire, con una voce calma, decisa. Non si scompose minimamente. Poi si rivolse a me. Mi ordinò di fermarmi dopo le lezioni. Avrebbe indetto un Consiglio d’Istituto straordinario per discutere la “questione”. E così feci. Finita scuola, la vicepreside venne a informarmi che nella palestra si stava riunendo la Commissione, e che dopo mezz’ora avrei dovuto recarmici.

Impressionante. La palestra era piena di gente. C’erano gli studenti delle mie classi con i genitori, disposti su due file come in una platea. I miei colleghi se ne stavano in fondo all’aula, dietro a delle cattedre messe l’una accanto all’altra a simulare il banco di una giuria. Sembravano scocciati per quella perdita di tempo. La vicepreside mi chiese di accomodarmi sulla sedia messa nel vuoto tra il pubblico e i miei giudici. Il Preside entrò e tutti fecero silenzio. Si sedette al centro delle cattedre e cominciò a leggere i punti all’ordine del giorno per quella riunione. Alle ore XX di lunedì XXXX il Dirigente Scolastico dà avvio al Consiglio d’Istituto Straordinario per trattare di un episodio che per la sua gravità richiede di essere esaminato con la massima urgenza. Il docente XXXX XXXXXXX, avendo dimostrato nell’ultimo mese un atteggiamento improprio verso il suo ruolo e avendo dato adito a sospetti sulla sua integrità morale, era stato precedentemente messo sotto sorveglianza dal Dirigente e dal personale scolastico, come richiede il D. Lgs. 94758499348939489. Secondo diverse testimonianze il suddetto docente avrebbe più volte avvicinato due sue studentesse, M.J.K. e D.K., figlie del Dirigente scolastico, con frasi e gesti impudichi. Forse temendo di essere scoperto, il docente ha comunicato al Dirigente stesso di essere stato vittima di dinamiche persecutorie da parte delle bambine, secondo un’inversione che è da leggersi come un’ammissione involontaria di colpa. Nel giorno odierno, il docente è stato scoperto nell’aula di arte con le due allieve, intento ad attirarle a sé, quando il Dirigente è prontamente intervenuto allontanando le sue figlie e indicendo il Consiglio straordinario.

Io ascoltavo, ma non riuscivo a concentrarmi. Le due bambine erano sedute nella prima fila di sedie accanto alla vicepreside. Mi guardavano e mi mostravano la lingua.

Terminata la presentazione degli eventi, mentre ero in attesa che arrivasse il mio turno per difendermi da quelle accuse che non avevano nulla di vero, con ribrezzo vidi la vicepreside alzarsi per aprire le porte della palestra e far entrare i miei vicini di casa trascinando i quadri del mio studio. Mi alzai in piedi, gridai che non potevano prenderli, che non avevano il diritto di entrarmi in casa e che quei disegni non provavano nulla. Ma il Preside mi ordinò con un gesto della mano di sedermi e io ubbidii. In quel momento mi accorsi che la sedia su cui ero seduto era fatta di cartone e, a guardar bene, anche il pavimento. Fissai le due bambine, mentre il Dirigente descriveva nei dettagli le mie opere, come fosse un critico d’arte. I loro occhi erano neri della china con cui io glieli avevo riempiti. E il pubblico, le cattedre, la mano con cui il Dirigente stava indicando i miei disegni. Tutto di cartone. Si potrebbe fare un tentativo, pensai. Presi dalla tasca del cappotto il blocco da disegno e una matita. Riempii un foglio di linee e di ombre per rendere al meglio l’immagine del fuoco. Con il disegno feci un aeroplanino, che lanciai contro ai miei giudici. Lo prese al volo il professore di matematica. Lo aprì e le fiamme cominciarono a divampare. Fiamme di cartone ma che si mangiarono l’espressione sorpresa del professore, il suo corpo e poi quello del Preside e di tutti gli altri miei colleghi. Nessuno si alzò. Io corsi via dalla palestra senza intralci e uscii all’aria aperta. Fuori dalla porta, era tutto bianco. Non c’erano più il cortile, le macchine, le strade. Solo la scuola di cartone che si stava rapidamente accartocciando. Mi sedetti a guadarla diventare cenere. E poi a vedere la cenere scomparire. Non c’era più nulla, solo io. Presi di nuovo in mano la mia matita e iniziai a disegnare sul pavimento. Le mie bambine. Vestite con un abito lungo fino alle ginocchia, le scarpe di tela coi lacci. Le facevo ballare, arrampicarsi sugli alberi, saltare gli ostacoli, combattere contro i mostri. Cercavo di riempire ogni spazio vuoto con le loro figure. E cerco ancora. Ho scoperto che anche il cielo si fa disegnare. La matita è diventata un moncherino ma io continuo. Se trovassi i lembi di tutto questo bianco mi ci chiuderei dentro.


Giulia Sarli si è laureata in lettere con una tesi su Daniele Benati all’università di Bergamo, città in cui vive. Per amore dei libri passa il suo tempo tra librerie e biblioteche. Quando può scappa a Marsiglia a guardare il mare. Collabora con la rivista online La balena bianca.

Redazione

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