Il segnale delle cinture di sicurezza si spense appena l’aereo raggiunse la quota di volo. Il mio vicino di posto non aspettò un secondo di più.
“I have to go to the toilet” sentenziò, così mi alzai perché andasse in bagno prima degli altri passeggeri. Sedendomi di nuovo, incrociai lo sguardo della giovane hostess diretta a passo spedito verso il carrello delle bevande e ricambiai il sorriso di circostanza. Osservai la divisa che indossava, gonna sopra il ginocchio e una calza smagliata.
“Chissà se ne ha un paio di scorta”, pensai, mentre una vampata di calore mi colse dietro al collo. Con la punta gelida delle dita toccai piccoli pomfi simili a brufoli che in un attimo si moltiplicarono sotto la nuca. “Ma perché non spolverano i poggiatesta”, rimuginai, poi storsi la bocca, e subito qualcosa di simile a un angelo perverso sguainò la spada e mi trafisse la gola. Provai a deglutire il pugno di sabbia sceso nella trachea, per lo sforzo gli occhi si misero a piangere senza che nessuno glielo avesse chiesto. Così il cervello tentò di serrare le file, imponendo a tutto il corpo di calmarsi, ma fu un’impresa inutile. Fuoco e ghiaccio si allearono, la schiena era immersa nel tepore innaturale di un’anestesia epidurale, le gambe assiderate dalla tormenta siberiana. Frugai in tasca per prendere il cellulare con la mano che formicolava e il tessuto dei pantaloni mi sembrò simile a carta vetrata. Dallo specchio dello smartphone vidi le palpebre gonfie e pesanti di un camaleonte che comprimevano gli occhi liquidi e rossastri. E anche un puntino scuro agitarsi tra i capelli. Era un ragnetto grande quanto un chicco di sale diretto verso il lobo dell’orecchio destro.
Ce l’avrei fatta se non avessi lasciato la siringa nella stiva. Invece, granello dopo granello, la sabbia mi riempì tutta la trachea, inesorabile come quando scorre dentro una clessidra. Con il naso pieno di muco e le labbra di gomma implorai il mio vicino che tornava al suo posto controllandosi la patta.
“Lina… Lina…”.
“I am not Lina, sir. My name is John”, disse ironico, prima di rendersi conto della situazione e chiamare l’hostess gesticolando.
Quella si precipitò. “È uno shock anafilattico, ha con sé l’adrenalina?”, alzò la voce perché sentissi bene. Ma il mio corpo fu più veloce. Diedi un ultimo sguardo alla smagliatura della calza e poi atterrai nel luogo da cui partii tanto tempo fa.
Giulio Natali