Da quando il figlio è morto sono passati vent’anni, ormai: lui vorrebbe smettere di soffrire, ma sua moglie non è d’accordo. Allora intreccia le dita delle mani dietro la schiena e come suo solito s’incammina
len-ta-men-te
len-ta-men-te
len-ta-men-te.
Pochi passi e s’arresta per scrutare all’orizzonte un punto lontano, altri passi e ancora si ferma, ecco, un’altra volta, lo vedete? Immobile a fissare un indefinibile punto
lontano
lontano
lon-ta-no.
Si porta due dita sotto agli occhiali e si massaggia le palpebre, stanche di scandire il ritmo di sguardi che ormai altro non fanno se non recitare una parte. Intreccia ancora le mani dietro la schiena, annuisce alla comparsa casuale d’un vecchio pensiero consolidato e riprende il cammino, lentamente.
Son tutte cose che – in maniera più o meno consapevole – pensa d’essere costretto a fare per dimostrare agli Altri (quelle persone poste a mezza distanza dalla sua persona chiusa in un cerchio ombroso costantemente assediato… costoro potrebbero immaginare che il dolore l’abbia annichilito per sempre) ch’egli invece cammina e va, cammina e va, e osserva, s’interessa, si massaggia. No, non credano sia comunque riuscito a prosciugare l’inesauribile fonte del suo dolore: lui lo porta sulle spalle, nelle tasche, sotto al paltò, sopra al cappello… non vedete come cammina lentamente? Quant’è grave il suo passo, e solenne, ora il destro, ora il sinistro? Eppure vedete, cammina e va, osserva, s’interessa. Si stropiccia gli occhi.
Quegli occhi
che non vedono più.
E annuisce, sì. Ma non come farebbe chi volesse dire d’essere d’accordo con qualcosa o qualcuno, ma come chi mostra d’aver capito. Di ricordarsi la lezione. Che sa esattamente dove ha sbagliato, ma ormai…
Giunge di solito a quest’ora nei pressi dell’incrocio che dà sulla piazza del comune, siede su una panchina dopo averla distrattamente spolverata e piega la testa di lato, così, impercettibilmente, e aspetta. Dopo pochi minuti, istanti, talvolta, risuonano bronzei i rintocchi dal campanile che lo scuotono ordinandogli di rialzarsi e lui obbedisce benché apparentemente controvoglia, e poi si volta e torna sui suoi passi, via, verso casa dove la moglie l’attende per il pranzo.
Mangiare
è necessario.
Il tavolo, apparecchiato, è mezzo vuoto: la figlia maggiore, sposata, vive, vive, vive altrove, dispone cibo e piatti su un altro tavolo, serve il cibo a un marito e ad altre due persone, persone che prima non c’erano e che all’improvviso, un bel giorno, son sbucate fuori da lei: un maschio e una femmina, e il maschio, lei, senza paura o esitazione, nonostante la silenziosa, spesso ferma, esplicita opposizione intercettata negli sguardi dei famigliari e degli Altri, l’ha voluto chiamare con il nome del fratello, con il nome di Lui.
Con il suo nome,
perché?
Per molto tempo rimangono le posate sospese a mezz’aria sotto gli occhi dei due commensali che recitano la loro muta, quotidiana preghiera di ringraziamento: non sono certo persone che diano per scontato il cibo. La moglie fissa lo sguardo sulla bocca di lui e osserva il boccone sparire ungendone le labbra, sporcandone i denti e infine ode prodursi quel suono così spiacevole. Persino poi, crede d’intravederlo con la coda dell’occhio mentre scivola giù nella gola, osserva gonfiarsi quel collo e sgonfiarsi quel collo.
Gonfiarsi e sgonfiarsi
gonfiarsi e sgonfiarsi.
Quella volta che Lui venne a tavola con quel buffo cappello in testa.
Ecco, ora non ha più fame e posa la forchetta, senza però lasciarne la presa, come a dire: respiro un attimo e poi mangio ancora – far credere che sia solo una pausa e non un arresto: ho ancora la posata in mano, non ho finito, è soltanto una pausa, non un arresto, e nel frattempo appoggia la vista in mezzo agli occhi della moglie e non gli riesce d’evitare di pensare a quando lei durante la veglia funebre gli sussurrò preferirei mangiarlo, lo vorrei mangiare invece di seppellirlo, e cerca ancora di capire guardando quella testa se davvero da lì uscirono quelle parole e fece coraggiosamente finta, lui, di non averle sentite o se le sognò soltanto.
S’alzò da tavola Lui, quella volta, e disse Ciao, torno fra poco e uscì e se ne andò. Uscì, se ne andò.
Ciao.
Lei guarda un punto del viso del marito e pensa a quando alla veglia funebre disse È ancora lui: non lo voglio seppellire, mangiamolo! e cerca di capire guardando quella testa se davvero lì entrarono quelle parole e lui fece finta di non sentirle, o se lei soltanto si sognò d’averle dette.
Parole che entrarono e uscirono.
Se sono state dette, se sono state sentite, come è possibile, pensano entrambi, che non sia visibile un segno chiaro di tutto questo sui nostri volti, in che modo impercettibile sono dunque essi cambiati per sempre, invisibilmente a noi? Gli Altri, guardandoci, sapranno? Se pure lui le ha intese, non può aver capito. Non sa che se hai portato una cosa dentro prima che fosse davvero qualcuno, ti strapperesti il cuore dal petto pur di riaverla dentro di te ancora, ora che è tornata a essere una cosa.
Lei raccoglie i piatti e li posa nel lavandino. Scorre l’acqua, si osserva le mani livide e ricorda di quel giorno in cui fu costretta a gettare i suoi vecchi guanti, logori da vergognarsi. Vergogna degli Altri, sia mai che pensino: Soffre tanto la poveretta che non s’accorge neppure in che stato pietoso son quei suoi poveri guanti. Si dimenticò di comprarne di nuovi e all’indomani, con quel gelo eccezionale, fu costretta a uscire a mani nude. C’erano, i guanti di Lui, ma lei non li usò.
Suo marito ha avuto per un certo periodo le nocche della mano destra screpolate, abrase. Prima di dormire aveva preso l’abitudine, a letto, d’accarezzare la parete che divide la loro camera da letto da quella di Lui. Poi incominciò a farlo con il dorso della mano, chissà il perché, poi, ancora, a battere: bussare lievemente, poi sempre più forte, contro a quella divisoria bianca, e picchiava così forte, nell’ultimo periodo, che lei, a una ventina di centimetri al di sopra del materasso, su quel muro, può distinguere i segni, accarezzare l’interno di quelle cavità con la punta delle dita e contare le nocche della mano del marito incise nell’intonaco.
Mille e mille sono
i gravi rintocchi.
È da così tanto tempo che non trova più segni nuovi su quel muro. Tanto tempo. Quanto? Forse da quella notte in cui lui si svegliò e la sorprese. Perché si svegliò quella notte? Cosa lo destò? Poteva sentirlo anche lui, dunque? No, forse soltanto lo sospettava, ne era inquietato: leggero il suo sonno. E poi, probabilmente, solo per caso lui uscendo dal sonno la sorprese mentre parlava con Lui. Lo confessò subito, il marito si sedette e sotto il pigiama si notava il petto gonfiarsi a dismisura,
velocemente
velocemente
velocemente.
E senza muoversi le chiese E cosa ti dice? a capo chino lei rispose Dice: pregate e piangete. A Natale e per le feste, pregate e piangete un po’ di più.
Lei guardò la faccia del marito per cercare di capire se avesse inteso. Per sapere se lui non pensasse di star sognando. Lui allora le osservò la testa per accertarsi che quelle parole fossero davvero uscite da lì, che non se le fosse soltanto sognate. Dice: pregate e piangete, ripeté lei, a Natale e per le feste, pregate e piangete un po’ di più.
Lo facciamo… lo facciamo, disse lui, e s’alzò e tornò a letto. No: il marito non lo poteva sentire, Lui. Quella voce poteva tornare a riecheggiare dentro alla cassa di risonanza che lo portò prima che nascesse, e solo lì può risuonare ora che la voce è tornata al luogo da cui è partita. E c’è tornata così
velocemente,
velocemente,
velocemente.
Per venire dalla terra sei passato attraverso me. Attraverso me transita ora per tornare al cielo.
Dopo pranzo lei rammenda. Le sembra che le si spengano tutte le luci intorno e tutto ciò che rimane da vedere al mondo stia lì fra le sue mani. Un punto dopo l’altro e il buio avvolgendola le accarezza il collo. Ipocrita tenerezza: nel frattempo le ruba i pensieri. Dove li porta? Il marito intanto dorme un’oretta in poltrona, accanto al camino. Dietro alle palpebre, quel bagliore rossastro è tutto quanto possa vedere. Il fuoco si spegne, sente freddo e si sveglia, e mette altra legna, e va da lei e la saluta, ed esce di casa intrecciando le mani dietro alla schiena e s’incammina
len-ta-men-te,
len-ta-men-te,
len-ta-men-te.
Poi s’arresta e guarda un punto lontano, lontanissimo. Ormai ha deciso che non è più il caso di soffermarsi a osservar nulla che gli stia vicino: se trovasse che qualcosa è bello, non potrebbe dire che è bello; se vedesse qualcosa che fa ridere, non potrebbe ridere. Tutto ciò che potrebbe dire sarebbe: È bello: piacerebbe a Lui; Lo farebbe ridere. Preferisce non guardare più nulla che gli stia troppo vicino, o con troppa attenzione: ha dimenticato ciò che piaceva a Lui.
Se piange, per Lui
piange.
Qualche volta si chiede: E se fosse che siamo morti noi? Se è così, in che posto ci troviamo, ora? In che cosa è diverso da quello in cui abitavamo prima? Se l’unica differenza fra questo e quel mondo è che questo è disabitato da Lui, allora pregherò che muoia, cosicché potremo tornare a essere felici tutti insieme. Quando si riprende da questi momenti, si sente come un superstite circondato dalle macerie e dai rottami. Compresa la propria collocazione, ci si ritrova. Sì, ritrovarsi ma, d’altra parte, cos’avrà, di bello, questo mondo per cui poi varrebbe la pena di perdercisi? E si chiede Starà in un posto peggiore, Lui, del mio? Se qua non c’è più nulla che mi piace, il luogo in cui si trova non potrà in nessuna maniera essere peggiore di questo. Semplicemente sarà
un luogo
lontano,
immobile e lon-ta-no.
Ma qua, lui vede che quanto gli rende una misura del tempo, che lo voglia o no, avanza. Non è forse una novità quel manifesto apparso durante la notte su quel muro? Non ha forse addobbato l’albero, riempito la ringhiera del balcone di luci, il vicino? Non torna il Natale? Non c’è, dietro l’angolo, sempre qualcosa di nuovo? Non cresce forse, il nipote? Che ha quel nome, quel nome, perché gliel’hanno dato? Bisogna aggiungere, ammettere forse, che a forza di pronunciarlo per riferirsi a una persona nuova, diversa da Lui, quel nome sta incominciando a perdere l’eco lugubre che prima gli risuonava in testa, e prende un colore diverso, e poi nessun colore. Sta perdendo ogni senso! È un po’ lo stesso di quanto gli sta accadendo con il nome di Dio. A forza di convocarlo nelle preghiere, anche quel nome ha finito per svuotarsi d’ogni sostanza, d’ogni significato. Vorrebbe persino smettere d’evocarlo, di cercare assistenza e conforto con questa tenacia, lo fa sentire come un lacero e molesto questuante, ma queste sono
cose che non possono dirsi,
come quando quello fermò la moglie e le posò una mano sulla spalla e disse Coraggio, è la vita e lei senza guardarlo, si scostò da quel contatto e disse No, no-no! È proprio il contrario, è la morte.
Vorrebbe anche lui, talvolta, metterle una mano sulla spalla, qualche volta, così, senza parlare. Quant’è che non tocca più sua moglie? Che non gli fa una carezza sulla testa? Da tanto, troppo tempo, così tanto che non sai più dove andare a cercare il punto da cui incominciare a rammendare. Fili, i suoi capelli, che lui non ha più il coraggio di toccare. No, non è il coraggio che gli manca. Non sa più come, in che modo. E poi… poi, ora che il suo capo non è più una liscia compatta parete, quando il vento la percuote stride sinistramente fra le instabili fenditure e pare un cigolio, come una porta che canta di notte, e in lei si depositano e nidificano e muoiono… cosa?
I nomi
alle volte
si danno per paura.
Lentamente. Lontano. Un giorno, un istante. Un frammento di secondo in cui la strada improvvisamente impazzisce e s’impenna e lui si ritrova costretto a inerpicarsi là dove un attimo prima passeggiava sereno. S’aggrappa a ogni buio appiglio, posto aldilà di ciò che rappresenta il suo confine del visibile, e della cui presenza si fida ciecamente, sicuro com’è che ognuno di quei sostegni siano oggetto della sorveglianza che chi s’è posto fuori dal sensibile gli dona. Questa, questa sì che è fede: chi s’affida a Qualcuno non vive sottoterra confidando che esista la luce, ma sta in superficie e pensa che quella certa luce venga diffusa da un proiettore. La salita finirà. Proprio dietro l’angolo finalmente si scollina e
potrà
rotolare giù.
A cosa serve, a cosa serve, si chiede, soffrire così, piangere sempre, svegliarsi ogni mattina con la disgrazia sullo stomaco? È passato tanto tempo. Ci sono mattine in cui non ricorda più
la disgrazia
che nome ha.
China il capo e storce la bocca, di riflesso. Tutto il suo corpo è ormai attraversato e percorso da un enorme groviglio formato da un solo nervo che lo muove, lo fa vibrare e contorcere a suo piacimento. Che senso ha. Che senso ha, tutto questo? Per chi, lo fa?
Perfetta,
perfida
perversione.
Anche a me, sì, anche a me, Lui… lui, manca. Immensamente. Ma non come una persona che sia defunta, cosa che, lo ammetto, neppure io mi sono ridotto ad accettare del tutto. Mi manca come una persona che non incontro da tanto, troppo tempo e che non vedo l’ora di incrociare ancora, per caso, all’improvviso, voltato l’angolo.
E tutto ciò che
non è stato.
È Natale. Siedono a tavola, loro due. S’affliggono più di quanto già non facciano normalmente. È così che devono fare. La porta si apre, ed ecco: Lui è ritornato. Così, semplicemente. Raggiunge i genitori a tavola e si fa portare un piatto, ma prima di incominciare a mangiare li guarda negli occhi e dice Io non sono Davvero quel Lui. Sono soltanto poco più di un burattino, d’un pupazzo di carne, una creatura plasmata dalle vostre preghiere e dalle vostre lacrime. Ma, d’altra parte, non lo fu pure Lui quando nacque?
Vi capiterà, forse, un giorno di questi, d’uscire per le strade del nostro ameno paesello e d’incontrare quel padre. Lo riconoscerete: cammina lentamente e a ogni decina di passi si arresta e guarda lontano. Poi, sconsolato, scuote la testa. Avvicinatelo e provate a chiedergli il motivo di tutta questa sua afflizione, adesso che Lui è tornato: non saprà più dirvi, ora, cosa gli manca.
Nivangio Siovara