Per tutta la sera le hanno ripetuto di non allontanarsi. Di stare accanto ai suoi fratelli. Di non parlare con gli sconosciuti. Di non sporcarsi i vestiti. Di restare lì vicino, dove c’è l’ingresso e il grande falò intorno al quale tutti ballano. Lei ha guardato il limitare del villaggio. I festeggiamenti andranno avanti fino a notte fonda. Per cui, non ti allontanare da qui, stupida bambina.
E lei ha risposto di sì, ha annuito fino alla nausea, si è fatta strattonare i capelli per un momento. Quando mamma si è allontanata, la piccola è rimasta lì dove le è stato chiesto di restare. I fratelli le corrono intorno, le alzano la gonna e ridono. La stuzzicano nei modi più terribili, ma a lei non sembra importare. Cerca il papà. Sta dirigendo le danze, le sue mani viscide s’allungano come tentacoli. Una piroetta e una palpata dritta al sedere. Un’altra, e si sale un po’ di più. Mentre la bambina osserva nauseata quella scena, uno dei fratelli le afferra la mano e gliela trascina sui pantaloni.
“Toccami.” le dice.
A quella presa, lei gli dà un morso sul braccio. Lo fa con una forza inaudita e lui la molla e inizia a frignare.
“Vado a dirlo alla mamma, cretina.”
La bambina lo guarda con odio e si stringe nelle spalle. E lui va, corre via con gli altri. Se la mamma viene disturbata nel bel mezzo del divertimento, sa come va a finire.
Passano pochi istanti. L’urlo feroce arriva forte e chiaro.
“Asiette!”
La madre è ancora lontana, ma ha qualcosa tra le mani di duro e pesante. E capisce che è un tizzone. E arde, marchiando l’aria.
“Asiette!”
La piccola indietreggia e scappa. Spintona gli abitanti, passa sotto un carro, gli aghi di paglia si infilano nei vestiti e la pungono come vespe. I graffi le bruciano. Mentre corre alza il viso e vede qualcosa sopra la testa: lucciole, tantissime, un’invasione, sono una dietro l’altra, in fila indiana, un fenomeno inconsueto. La scia supera il confine del villaggio e si avventura là dove a nessun bambino è permesso andare. Verso Nord, oltre il Bosco.
La piccola prende fiato, e si volta indietro. Sente ancora il suo nome. Ma l’eco è arrendevole. Nemmeno s’ode più. E tra le risate rivoltanti, la musica alta, le orge e i calici al cielo, Asiette decide di lasciarsi tutto alle spalle e andare là dove le è stato detto di non andare.
Il Bosco non è un bosco comune, di quelli verdeggianti, ricchi di fauna e flora. È un luogo arido, fatto di scheletri di querce, di trappole e di animali malnutriti, dove l’alba non sorge mai. Asiette raggiunge la fenditura. Ha perso il conto dei passi. Sopra la sua testa le lucciole sono scomparse. Piange. Piange perché non può tornare. Piange per i lividi, per le violenze, per le male parole.
A terra ci sono tanti cumuli di cenere, sembrano lì da tempo. La piccola alza il piede e li colpisce. La polvere si sparge nell’aria e le imbratta i vestiti. Sospira.
Poi, qualcosa la spinge: si ritrova con la faccia giù, a ingoiare fango e terriccio. Ha la bocca piena e respira a fatica. Prova a tirarsi su, ma le pare impossibile. Sopra di lei non c’è nessuno. È il Bosco che la preme con tutte le sue forze, maledicendola dello sgarbo. Dell’essere giunta senza permesso.
Che tu sia maledetta.
Asiette gira il viso e i suoi occhi incontrano delle figure. Brillano, circondate da una lingua di fiamme. Il suo pianto sale, rompe ogni barriera del suono.
L’annusano. L’assaggiano. Il branco l’accerchia.
Respira, bambina. Resisti. Non fiatare. Chiudi gli occhi.
I Lupi che bruciano la circondano. Sono spiriti condannati a un rogo che non ha mai fine. Vivono, respirano, e proteggono il Bosco. I lupi iniziano a scavarle attorno. Asiette li guarda negli occhi, e smette di avere paura. Uno di loro la lecca in viso, poi continua a scavare. Il calore non la ustiona. È piacevole. Chiude gli occhi. E si addormenta, scivolando sottoterra.
Al villaggio le grida in festa continuano, ignare. Asiette tornerà, dice la madre. Quella sudicia disobbediente busserà oggi stesso e tornerà a casa strisciando.
Ma quella notte, la madre si sbagliò. La figlia non fece più ritorno.
Numerose furono le ore in cui la famiglia la cercò il giorno a seguire. Non è tanto il pensiero di una bambina perduta tra le fauci del nulla, quanto la vergogna di cui si sarebbero infangati, se al villaggio avessero scoperto che avevano mandato a morte certa l’unica femmina della prole. Femmina che poteva esser venduta, fatta prostituta, schiava, serva amorevole dell’uomo più benestante. Un seme vergine che avrebbe donato frutti assai rari. E così, prima la madre, poi il padre, il cugino parroco, e lo zio falegname, tutti si sono spinti là dove non è raccomandato andare, a cercare quella sciocca invano. È allo scoccare della mezzanotte che gli adulti, stanchi e sfiniti, mandano i fratelli più grandi. Perché sono giovani e hanno la vista buona.
Nonostante la scocciatura in volto, essi, lanterne in mano, vanno in cerca della sorella minore. Camminano a lungo quando raggiungono finalmente il confine; notano le tenebre tra le fronde, non ne avevano mai viste di così scure. Sopra di loro, passa indisturbato un nugolo di lucciole. È il più grande a infrangere il silenzio. Ha la voce sporca di fumo, i polmoni di tabacco.
“… Questa storia di nostra sorella non mi convince.”
“Che storia?”
“Di trovarla e riportarla a casa. Non pensi che per salvare il nostro onore sia meglio affogarla nel fiume?”
L’altro si fa serio. Sembra titubante. Lo fissa come se avesse capito male.
“Affogarla nel fiume? Ma perchè?”
Il maggiore fa un respiro, prende qualcosa dalla tasca e rigira del tabacco.
“Una bambina che fugge sotto gli occhi della sua famiglia, che va a fare le scampagnate in giro, da sola, senza nessuno che la comandi a bacchetta… Già così abbiamo il dito puntato addosso. Nessuna era mai scappata dal villaggio. Io sono certo che riportarla sia un guaio ancora più grosso. Potrebbe raccontare cose. Potrebbe…”
Il più giovane dà un calcio a un sassolino; con un ramo stuzzica una lucertola.
“Ma affogarla, è necessario? Sarà secca e digiuna. Debole. Non parlerà. Avrà sicuramente paura di riprovarci, dopo le bastonate che prenderà.”
“Scapperebbe di nuovo. Ne sono certo. E andrebbe lontano. E infangherebbe il nostro nome.”
“Anche livida?”
“Anche livida. Ricordati e impara: solo la morte, può impedire una fuga.”
I fratelli si inoltrano, calpestando un lungo tappeto di foglie. Sotto ai piedi, uno scricchiolio continuo, simile a ossa che si spezzano. Uno dei due comincia a chiamarla a gran voce.
“Asiette!”
“Vieni fuori, verginella. Il gioco è finito.”
I due scoppiano a ridere. Fanno versi e imitano grossi maiali, si danno due spinte.
“È vero che una notte ti sei infilato nel suo letto?”
Il grande sorride malizioso.
“Ci puoi giurare. Ma lei è tosta. Non si fa sottomettere con facilità.”
Il buio è sempre più fitto. Ma l’eco delle risate muta: sono i lamenti a farsi spazio, quando impigliano le caviglie tra i rovi.
“Ah!”
Entrambi cadono a terra. Sporchi di fango, di una strana cenere che si alza nell’aria. C’è odore di bruciato. Improvvisamente, sentono un fremito alle spalle. I rumori del Bosco diventano fruscii, fischi insopportabili, gli animali nascosti battono contro le cortecce, come in un potente rituale. I fratelli non riescono a sollevarsi, una forza divina li opprime giù. Li costringe a strisciar come vermi.
“Che succede?”
Dietro ai cespugli fiamme imponenti si allungano fino a toccare il cielo.
“Al fuoco! Aiuto!”
Qualcuno sta incendiando il Bosco. O un fulmine ha colpito degli alberi. I fratelli piangono. Le forze li abbandonano e nel mezzo del rogo, vedono sbucare qualcuno a cavallo di un grosso animale. L’essere somiglia a una bambina, minuta, gracile, deformata, con un lungo mantello a coprirne le spalle. Ha gli occhi vuoti, e il viso sporco di fuliggine.
Il fuoco si contorce e vomita nuovi contorni: i due ragazzini urlano, ma le voci vengono risucchiate dalla terra. Sono i Lupi. Sono i Lupi che bruciano. Lo scatto delle zampe produce un vento che solleva tutte le foglie.
Asiette, che ha perso tutto ciò che di umano si dovrebbe possedere, accarezza il muso del più grosso a cui resta aggrappata; schiude le labbra e sorride.
“Affogateli nel fiume.”
Poco dopo le fiamme si spengono.
Il silenzio trova fissa dimora.
Di tre figli, nessuno fece più ritorno. Né di corpi ci fu mai l’ombra. E al villaggio, la notte di sentenza, nulla sembrò più opportuno che accendere un falò in piazza, al calar dei cappi, e riempire di vergogna e frutta marcia una famiglia che aveva perso tutto. La prole e la vita.
Al Bosco s’era accesa una strana luce. Il popolo giurò che il sole non sorgeva da cent’anni.
Arianna Cislacchi è nata ad Albenga nel 1991. Dopo il diploma decide di spostarsi in terre piemontsi; a Torino si laurea in Scienze dell’educazione. Lavora in una scuola dell’infanzia e nel tempo libero legge, scrive e s’improvvisa pittrice. Le piace suonare il pianoforte e si considera fieramente nerd. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie; collabora con il giornale eco.l’educazione sostenibile.