Il Tenentino

Mi chiamo Zopito D’Eustachio, aquilano, classe 1881, caporal maggiore degli alpini, ho ottantanove anni e sto morendo.

Un cancro, mi dicono.

Non ho capito bene dove sia, questo cancro, e francamente, non m’interessa… spero solo faccia il suo lavoro in fretta, e con misericordia, così che io possa finalmente raggiungere i miei commilitoni, ormai andati avanti da troppi anni.

Perché scrivo questo… a chi può interessare? Non lo so. A nessuno, credo, ma io devo assolutamente liberare la mia anima da una storia che mi porto dentro da cinquantacinque anni e a cui la mia mente è riandata ogni singolo giorno, badate, ogni singolo giorno della mia vita. Anche quello del mio matrimonio, quello della nascita dei miei due figli, della morte dei miei genitori… insomma, ogni singolo e santo giorno, io ho pensato a lui, Giovanni Gamper, il tenentino di Merano.

Oggi pomeriggio, con fatica, ho camminato fino alla cartoleria Filograsso per comprare una risma di fogli protocollo e una penna Bic. Il cartolaio, scherzando, mi ha detto: “Zopì, te si decise a scrive ju testamendo?[1]

In un certo senso, Filograsso ha azzeccato.

Alle sette di sera, dopo aver combattuto per circa un’ora con un piatto di puntarelle in brodo che il mio corpo rifiutava caparbiamente, mi son seduto al tavolo della cucina con una coperta sulle gambe, ho appoggiato davanti a me la medaglia d’argento al valor militare, e ho iniziato a scrivere la storia del tenentino, ovvero Giovanni Gamper, da Merano, sottotenente degli alpini.

Nel dicembre del 1915, insieme con altri abruzzesi di origine montanara, fui assegnato alla 143ª compagnia dell’appena costituito battaglione alpini Monte Berico, comandato dal leggendario tenente colonnello Vittorio Emanuele Rossi.

Il quindici maggio del 1916, quando gli austriaci lanciarono la potente offensiva Strafexpedition, il nostro battaglione, alle dipendenze del gruppo Alpini Porta, teneva le posizioni in Val Calcara e sul versante occidentale del Monte Maronia.

Come conseguenza dell’impressionante volume di fuoco dispiegato dall’artiglieria austriaca, il Monte Berico fu frazionato in vari gruppi, inviati da una parte all’altra della Val Terragnolo a difesa di posizioni spesso indifendibili. Alla fine il battaglione fu costretto a ripiegare verso la parte sommitale del Pasubio, dove, dopo cinque giorni di lotta senza alcun rifornimento, furono poco più di cento gli uomini che restarono di ben due compagnie.

La sera del ventidue maggio, stanco e affamato, mi ritrovai nei pressi della Cima Palon con tre uomini superstiti del mio plotone e un sottotenente della 93ª compagnia, sbandato, unico sopravvissuto della sua squadra.

Solo mezz’ora prima, il tenente D’Aquino, comandante del nostro plotone, era rimasto ucciso da un proiettile di 65/17. Con lui se n’erano andati tre ragazzi bergamaschi, portando le perdite del plotone a ventiquattro uomini.

Nel nostro gruppetto di sopravvissuti, oltre a me, c’erano: un altro abruzzese, il caporale Perrozzi Samuele di Pretoro; Lunardon Lino, un bocia di Marostica; il caporale scelto Bonetti Giovanni, bresciano, e infine, un po’ in disparte, il sottotenente Gamper.

Il sottotenente sembrava un adolescente. Era magro, alto circa un metro e sessantacinque, il volto era segnato da guance scavate e il naso promineva prepotente e sottile come una lama di coltello. Gli occhi vivi si muovevano curiosi. Più che una barba, aveva qualche pelo morbido e rado che gli ricopriva disordinatamente il mento e il labbro superiore.

La sera era scesa da poco ed eravamo accampati sotto uno sperone di roccia che a malapena ci proteggeva dal gelido vento che soffiava dalla Val Canale.

L’aria era fredda e tersa; un cielo enorme di stelle ci sovrastava nella notte di novilunio e la Via Lattea attraversava l’intera volta celeste. Quello spettacolo, magnifico nella sua vastità, risvegliò un ricordo che mi riempì di dolce malinconia: la carta di cielo stellato che mio nonno sistemava con religiosa attenzione sullo sfondo del vecchio presepio di famiglia.

Il tenentino, appollaiato sullo sperone di roccia, incurante della livida luce dei bengala, esaminava meticolosamente la pietra con una lente d’ingrandimento, annotando qualcosa su un blocchetto di carta.

“Il tenentino, là, è troppo nobile per stare con la truppa…” borbottò Perrozzi, stringendosi nella mantella.

Bonetti lo guardò, scuotendo il capo, e mormorò: “Cata sa! Lascialo stare, l’è ‘n gnaro, un ragazzo, non vedi? Avrà appena finito l’AUC ed è subito stato spedito all’inferno…  e senza biglietto di ritorno”.

“Sì, ma qualcuno gli dica di scendere da quella roccia. Prima o poi si farà impallinare come un tordo, e noi, ci farà scoprire tutti!”

Ogni tanto dei lampi illuminavano il cielo e subito dopo risuonava il cupo rombo del cannone. Da un punto imprecisato, ma non lontano, giungevano le raffiche rabbiose di una mitraglia. “È una Schwarzlose M.07/12. Spara seicento colpi al minuto. Brutta bestia… da macelleria” dissi dall’alto della mia esperienza. Con i miei trentacinque anni, ero il vecio del gruppo: ventiquattro mesi di ferma nel 1911, poi la firma di rinnovo e infine, la guerra.

Guardai nella direzione del sottotenente e con un ampio gesto della mano gli indicai di unirsi al nostro gruppo. “Tenente, scenda da lì, potrebbero vederla”.

Mi guardò con una strana aria di sorpresa sul volto, poi scrutò i dintorni, come a decifrare il paesaggio, ripose blocchetto, lente e matita nel taschino della giubba e con un gesto goffo scese dallo spuntone di roccia su cui si era appollaiato.

“Stava rilevando il territorio?” gli chiese Bonetti non appena ci raggiunse.

“No, stavo facendo delle rilevazioni geologiche” rispose il tenentino con naturalezza… come se fosse stata la cosa più ordinaria da fare in quella situazione.

“Rilevazioni geologiche? Cussù è matto[2]sbottò Perrozzi.

Intervenni immediatamente: “Perrozzi… rispetto! Stai parlando di un ufficiale degli alpini!”

“Si, vabbò, ma mo’ che facciamo? Stiamo completamente isolati dal resto della compagnia, io sto stanco, ho finito l’acqua da cinque ore e dentro lo stomaco tengo le gallette che sono diventate un blocco di cemento…” protestò Perrozzi.

Questi era un abruzzese di media altezza e di corporatura robusta. Le sopracciglia disordinate e cespugliose e gli occhi tondi, sempre sbarrati, gli conferivano un’espressione selvaggia, tanto che qualcuno, cautamente e sottovoce, lo definiva il lupo mannaro.

Guardai il tenentino che mi rispose con un silente cenno di assenso, e dissi: “Allora, facciamo il punto: siamo in cinque. Armamento: quattro novantuno, più la pistola del tenente. quattro bombe a spezzone di tubo… altro?”

“Due razzi illuminanti” aggiunse alzando timidamente la mano, Lunardon, un ragazzo di neanche vent’anni, biondissimo e con la pelle bianca degli albini: “Se si possono considerare parte dell’armamento…”.

“Va bene… allora, il fronte sembra essere da quella parte” dissi, indicando la zona da dove provenivano il lampo e il rombo dei cannoni. “Se il tenente è d’accordo, io direi di avviarci in quella direzione… Tenente?”

“Sì” rispose l’ufficiale: “Andiamo pure”.

Mentre ci disponevamo in fila indiana, raccomandai: “Attenzione, con questo buio saremo costretti a seguire il sentiero… potremo incontrare pattuglie di esploratori o cecchini, sia italiani sia nemici, per cui, occhi e orecchie vigili”.

Partimmo che era circa la mezzanotte. Io aprivo la fila, dietro di me il tenentino, a seguire Lunardon e Bonetti. Chiudeva Perrozzi.

Avevamo percorso circa un paio di chilometri, quando accadde.

Uno schiocco secco, come di un ramo che d’improvviso si schianta, e Lunardon si afflosciò come un sacco vuoto.

Ci buttammo tutti a terra, strisciando in cerca di riparo dietro qualche masso. Lunardon restò a terra, immobile, solo il suo respiro roco e affannoso indicava che era ancora in vita.

Passò qualche minuto e il giovane con voce affannosa invocò: Mama, mama… aiutame mama”.

La voce del tenentino si alzò in un sussurro: “Vado a prenderlo… se sparano, cercate di individuare la fiammata”.

Bonetti, allungato dietro un masso a circa tre metri da Lunardon, mormorò: “Aspetti tenente, vado io a prendere il bocia, posso spingere il masso davanti a me”.

La grande pietra rotondeggiante iniziò a muoversi lentamente e dopo circa tre minuti era a fianco di Lunardon, che continuava a lamentarsi.

Bonetti allungò il braccio, afferrò la caviglia del ragazzo e iniziò a tirare a sé il corpo ferito.

Il ragazzo era già per metà al sicuro dietro il sasso, quando un altro colpo risuonò nel buio della notte. Lunardon ebbe un sobbalzo, poi più nulla: il respiro affannoso, le invocazioni, i rantoli, cessarono.

Pensavo di aver fatto il callo alla morte… avevo visto centinaia di uomini cadere intorno a me, ma la fine infame di quel ragazzo mi lasciò uno sfregio indelebile nell’anima. Era il bocia della compagnia, il più giovane; sentivo che avrei dovuto occuparmi di lui, della sua inesperienza… proteggere la sua vita fugace.

Il sussurro di Perrozzi ruppe il silenzio: “L’ho visto… ho visto la fiammata, so dove sta quel figlio di una puttanaccia… vado”. Nel giro di pochi secondi lasciò il fucile, infilò la baionetta alla cintola e sparì alla vista dei compagni, strisciando su gomiti e ginocchia. Serpeggiando goffamente, lo seguì il tenentino; senza dire una parola, estrasse la pistola e affondò nel nero della notte. Perché lo fece, non l’ho mai capito. Era poco più di un adolescente, un ragazzo inesperto e vulnerabile. Forse la sua stelletta di ufficiale lo spingeva a dimostrare che era in grado di assumersi le proprie responsabilità o forse, più semplicemente, si trattava d’incosciente e inutile solidarietà. Inutile perché conoscevo bene Perrozzi: era selvatico e solitario come i lupi del suo Abruzzo e l’afflato del tenentino gli era certamente superfluo, se non d’impaccio.

Trascorsero una ventina di minuti, durante i quali Bonetti riuscì a recuperare il corpo di Lunardon, poi, silenzioso come se n’era andato, dal buio spuntò il viso contorto dalla rabbia di Perrozzi. Aveva tra le mani un fucile che riconobbi subito per uno Steyr Mannlicher m95, il famigerato ta-pum.  Stavo per chiedere del tenentino, quando lo vidi arrivare: camminava eretto, occupato a riporre la pistola nel fodero con gesti impacciati.

“Tienimi lontano il tuo tenentino” ringhiò Perrozzi: “Che si occupi delle pietre… faccia quello che vuole, basta che stia lontano!”

“Shhh!” Gli feci cenno di tacere, poi lo presi da parte e chiesi: “Che è stato, che cosa ha fatto?”

“Stava per farmi ammazzare, ecco che è stato. Mi ha seguito come un gattino fino a quando siamo arrivati alle spalle del cecchino… eravamo ancora a una distanza di circa tre metri, quando quel cogl… il tenente si è alzato in piedi, con la pistola in mano, urlando che cazzo ne so io in tedesco… naturalmente, al crucco è bastato uno scarto di un metro per sparire nel buio. A quel punto, ho dovuto tirar giù il tenente, che era rimasto in piedi come un lampione, e andare a cercare il cecchino prima che potesse spararci addosso. Per fortuna l’ho trovato subito”.

Perrozzi sferrò un calcio a terra, inviandomi addosso un getto di polvere e pietrisco: “Stava per farmi ammazzare, e ci ha messo tutti in pericolo!” Puntò il dito verso il tenente: “È un geologo? E allora faccia il fottuto geologo!”

Il tenentino non disse una parola, se ne stava in disparte. Sembrava indifferente a tutto.

Dopo pochi minuti ci rimettemmo in marcia in direzione della linea del fronte. Le raffiche della mitraglia austriaca si facevano sempre più vicine, fino a quando, dopo aver aggirato un costone, la luce dei bengala rivelò una casamatta austriaca appollaiata sulla sommità di un erto sperone di roccia sul cui pendio si abbarbicavano lunghe onde di filo spinato.

I lampi di luce viola che illuminavano la salita rivelavano i corpi esamini di numerosi tagliatori con le inutili pinze ancora strette tra le mani.

L’edificio era un cilindro di cemento armato del diametro di cinque metri, con due metri e mezzo di altezza. Era ricoperto da una cupola corazzata e sulle pareti si aprivano vare feritoie di ampiezza diversa.

Il nostro gruppetto era in una posizione laterale rispetto alla casamatta, al di qua dai reticolati, a sole poche decine di metri dalla cupa costruzione.  Il caso ci aveva portati lì, dove centinaia di uomini erano morti nel tentativo di arrivare.

Ci buttammo a terra, mentre i bengala illuminavano la collina e la mitraglia sventagliava l’erta a scopo intimidatorio.

Perrozzi mi lanciò uno sguardo interrogativo: “Che facciamo?” bisbigliò.

Il tenentino, sdraiato al mio fianco, sussurrò: “D’Eustachio ed io assaltiamo il lato davanti a noi con due bombe a spezzone, voialtri” disse guardando Perrozzi e Bonetti: “Aggirate il bunker e assaltate il lato opposto con le altre due bombe… vanno lanciate nelle feritoie, naturalmente”.

“Ma guarda un po’… proprio non ci avevo pensato!” mormorò Perrozzi tra sé e sé, prendendo i due spezzoni che gli stavo porgendo; ne diede uno a Bonetti e i due uomini si allontanarono strisciando tra le pietre. Fu l’ultima volta che li vidi.

Mentre il tenente ed io ci avvicinavamo alla casamatta, dalla nostra destra provenne il crepitio di una mitragliatrice leggera e sentii Perrozzi urlare: “Jete tutti quande affangule![3]”. Poi più niente.

Il tenentino si fermò: “Che cosa ha detto?” chiese.

“Niente, tenente… ha salutato il mondo a modo suo”.

Mi guardò assorto, mentre annuiva ripetutamente.

Intanto, sul tetto corazzato della casamatta si era aperta una botola e una figura armata di fucile scrutava il territorio.

Con gli occhi piantati sul bunker, il tenentino disse: “D’Eustachio, li hai tu i due razzi illuminanti?”

“Sì” risposi.

“Allora…  quando te lo dico, sparane uno verso la botola e l’altro verso la feritoia laterale. Io cercherò d’infilare le bombe nell’altra feritoia.”

Non mi soffermai a pensare sulle probabilità di riuscita di quel piano pazzesco… gli consegnai gli spezzoni e lanciai i due razzi in rapida successione: esplosero in un lampo di luce colorata e scintille che mi fecero pensare alla festa patronale di san Massimo.

Intanto, il tenentino si era lanciato di corsa verso la casamatta; vedevo la piccola figura patetica correre goffamente sulla pietraia, con gli spezzoni in mano, cercando di non inciampare. Mi aspettavo da un momento all’alto il colpo di fucile o mitraglia che lo uccidesse, ma non accadde nulla, se non che giunse contro la parete del bunker, per accorgersi che la feritoia era troppo alta per lui.

Non si perse d’animo, il tenentino. Lo vidi strappare lo spago d’accensione di uno dei due spezzoni per poi aggrapparsi alla feritoia con la mano sinistra, spiccare un salto, e con la destra infilare la bomba nel bunker. Ripeté il gesto, e anche il secondo spezzone sparì nell’edificio; poi si lanciò a terra, addossato al muro della casamatta, proteggendosi la testa con gli avambracci, in un gesto che lo fece sembrare un ragazzino in attesa di chissà quale guaio incombente.

Dall’interno del bunker giunse una prima esplosione sorda, subito seguita dalla fuoruscita di denso fumo nero dalle feritoie.

La seconda esplosione, invece, scatenò un inferno di fuoco. Probabilmente la casamatta era anche un deposito di polveri e munizioni e lo scoppio che ne derivò fu tremendo. La calotta corazzata dell’edificio si sollevò in volo e fu rinvenuta a cinquanta metri di distanza, le pareti si disintegrarono e si sparsero nel raggio di trecento metri. Il costone di roccia si spaccò letteralmente in due, creando una serie di piccole gole e anfratti.

Quando, pochi minuti dopo l’esplosione, le Ballerine[4] del XX battaglione giunsero sul posto, trovarono solamente un largo cratere e, a trenta metri di distanza, il mio corpo inanimato.

Ripresi conoscenza dopo due mesi e la prima cosa che vidi fu la penna bianca di un generale degli alpini che mi consegnava la medaglia d’argento al valor militare.

Trascorsi altri due mesi in vari ospedali; alla fine recuperai in modo soddisfacente e fui rimandato a casa in congedo definitivo.

Fu solo allora che lessi la motivazione della mia medaglia:

Unico sopravvissuto del suo plotone, con grandissimo sprezzo del pericolo si slanciava

contro una posizione di mitragliatrice nemica che falciava i nostri e riusciva ad annientarla,

permettendo alle nostre forze di conquistare la Cima Palon.

Quella medaglia non apparteneva a me! Quella medaglia, che pendeva così orgogliosa da un bel nastro azzurro savoia, era del tenentino.

Ma io non dissi niente… gli inviti alle cerimonie patriottiche, la stima dei miei concittadini, l’ammirazione di chi mi chiedeva di raccontare le mie eroiche gesta furono più forti del mio senso di dignità, e così tacqui.

Da allora, però, ho pagato con allucinante regolarità il mio tributo al sottotenente degli alpini Giovanni Gamper: non c’è stato un singolo giorno della mia vita in cui alla sera, prima di addormentarmi, o al mattino, al risveglio, io non abbia avuto davanti agli occhi quel ragazzino che studiava i sassi: lo vedo correre goffo e incerto sulla pietraia, incontro a una morte eroica che io gli ho indegnamente usurpata.

Il mese scorso, sentendo la morte vicina, ho preso l’autobus e sono andato a Roma, al Ministero della Difesa, III Reparto, 10^ Divisione Ricompense o Onorificenze. Mi hanno ricevuto subito e ho raccontato gli avvenimenti nella loro interezza. Sono stato trattato con molto rispetto e gentilezza. Mi hanno parlato a voce alta, scandendo bene le parole, dicendomi di non preoccuparmi, di non pensarci. “Sa, in fondo, dopo tanto tempo…”. Poi si sono complimentati per la mia medaglia e mi hanno riportato a casa con una vettura di servizio, una di quelle con le bandierine.

 Fuori, il cielo inizia a schiarire e un altro giorno viene a reclamare un pezzetto di questo vecchio corpo morente. Ma, niente commozione senile, ho avuto molto dalla vita, non mi lamento.

Questa è la storia del tenentino. Ora che, dopo tanti anni l’ho messa sulla carta, mi sento finalmente libero. Libero di morire in pace.

Il corpo del tenentino non è mai stato ritrovato, l’immane esplosione lo ha ridotto in cenere e polvere. Cinquantaquattro anni sono trascorsi da quei tragici eventi, e la pioggia, la neve, il vento, con la loro pazienza immemore, hanno accompagnato il piccolo sottotenente dal grande cuore, fin negli anfratti più segreti di quelle rocce che lui tanto amava.

Scritto da D’Eustachio Zopito, alpino.

L’Aquila, anno 1970

Fine


Luigi Lazzaro, dirigente di una multinazionale. Tanti anni in giro per il mondo, poi una sera decide di cambiar vita. Torna al mare della sua Pescara e scrive racconti e romanzi che nel giro di pochi anni ottengono riconoscimenti in vari premi letterari, tra i quali: Premio letterario Il Molinello 2014, Premio Città di Torino 2014, Premio Città di Livorno 2015, Premio Riviera Adriatica 2015, Premio Voci, Città di Abano, Premio Terre d’Aspromonte 2015, Premio La Pira 2015, Premio Cerchiara, Premio Delitto d’Autore, Il Molinello 2016, Premio del Leone, Premio Voci Città di Roma, Premio Michelangelo, Premio Giglio Blu Firenze, Premio Inventa un Film, Premio città di Ascoli (premio della critica), XXXVI Premio Letterario Città di Cava de’ Tirreni, Premio La Città del Ponte, Premio Giano Vetusto.


[1] Zopito, ti sei deciso a scrivere il testamento?

[2] Questo è matto.

[3] Andate tutti quanti affanculo!

[4] Nomignolo con cui gli alpini chiamano i bersaglieri

Redazione

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